dariodeleonardis.me

L’AI e il futuro del lavoro: le domande che si fa la Silicon Valley (e perché dovrebbero preoccuparci)

Ogni tanto, per capire dove sta andando il mondo, bisogna smettere di guardare ai palazzi del potere politico e girare lo sguardo verso quelli, ben più influenti, della Silicon Valley. Lì, tra un round di finanziamento e l’altro, si disegna il nostro futuro. E quando a porsi delle domande sul futuro è Andrew Chen, pezzo grosso di Andreessen Horowitz (a16z), uno dei fondi di venture capital più potenti al mondo, non sta facendo filosofia. Sta disegnando la mappa del prossimo campo di battaglia economico e sociale.

Il suo ultimo articolo pone una serie di questioni apparentemente neutre su come l’intelligenza artificiale cambierà il modo in cui nascono e crescono le aziende. Ma a leggerle con uno sguardo critico, queste domande smettono di essere semplici speculazioni e diventano un manifesto, quasi un programma, di una radicale ristrutturazione del lavoro, del capitale e della società. E le risposte, o la mancanza di esse, ci riguardano tutti.

In questo articolo

 


 

Avremo bisogno di meno lavoratori? (Tradotto: chi resterà indietro?)

La prima domanda che si pone Chen è quasi retorica: le startup del futuro avranno bisogno di meno dipendenti? L’idea, che circola con insistenza, è quella di una “leva 1000x” fornita dall’AI, dove una sola persona può supervisionare il lavoro di mille “agenti” software. Un sogno per un investitore: un’azienda da un miliardo di dollari con un organico ridotto all’osso.

Ma chiamiamo le cose con il loro nome. Questa non è “leva”, è la più grande operazione di sostituzione del lavoro umano mai concepita. Certo, Chen ammette che serviranno ancora umani per compiti che richiedono “gusto” o per gestire le eccezioni. Ma il modello a cui si tende è quello di una drammatica concentrazione di valore nelle mani di pochissimi “supervisori”, lasciando a tutti gli altri le briciole o, peggio, l’irrilevanza economica.

La domanda, quindi, non è se le aziende avranno meno dipendenti, ma quale sarà il costo sociale di questa “efficienza” e come intendiamo gestirlo.

Come si difenderà un’azienda? (Tradotto: chi controllerà i nuovi monopoli?)

Nel gergo dei capitalisti, la “difendibilità” (defensibility) è il fossato che protegge un castello, il vantaggio competitivo che impedisce ai concorrenti di copiarti. Chen si chiede come funzionerà in un mondo dove un’AI potrebbe replicare un software in un istante. La risposta che si dà è illuminante: o si punta su network effect e brand, oppure si investe in settori con enormi costi iniziali (CapEx), come lo spazio o l’hardware.

Ancora una volta, traduciamo. In un ecosistema dove la tecnologia di base è accessibile, a vincere non è chi ha l’idea migliore, ma chi ha già la distribuzione, cioè i giganti attuali. L’alternativa è creare barriere all’ingresso così alte – con costi infrastrutturali proibitivi – da tagliare fuori chiunque non abbia accesso a capitali immensi. In entrambi i casi, il risultato è lo stesso: una spinta verso la centralizzazione e il monopolio. La romantica favola della startup nata in un garage che sfida i colossi è, appunto, una favola che serve a mantenere viva la speranza, mentre la realtà va nella direzione opposta.

La vera domanda, come ammette lo stesso Chen, è: “Gli incumbent (le grandi aziende, ndr) otterranno l’innovazione prima, o le startup otterranno la distribuzione prima?”. E la risposta più probabile è che i primi vinceranno, sempre.

Le startup costeranno meno? (Tradotto: i soldi andranno sempre agli stessi?)

Qui il discorso si fa ancora più interessante. Certo, creare una semplice “app” potrebbe costare pochissimo grazie all’AI. Ma i costi davvero pesanti, quelli per addestrare i modelli fondamentali e per costruire le infrastrutture, sono astronomici. Questo crea un sistema a due livelli: al vertice, un’oligarchia di aziende che controlla i “cervelli” dell’AI, la nuova risorsa strategica. Al di sotto, una miriade di piccole imprese che costruiscono servizi su questa infrastruttura, pagando di fatto un affitto ai signori del cloud e dei modelli.

Quindi, se anche nascessero più startup, il flusso di valore andrebbe comunque a concentrarsi verso l’alto, rafforzando chi è già in una posizione dominante. Il venture capital, semplicemente, si adatterebbe, finanziando non più il rischio, ma la crescita di chi opera su piattaforme già consolidate, o investendo direttamente nei padroni dell’infrastruttura.

Che ne sarà delle professioni? (Tradotto: come si smantella il lavoro qualificato?)

Chen si chiede se avrà ancora senso, in futuro, avere ruoli distinti come ingegnere, product manager o designer. Forse, ipotizza, queste discipline collasseranno in un’unica figura capace di dialogare con l’AI per creare un prodotto. Sembra un’evoluzione affascinante, ma nasconde un processo di de-skilling, di de-qualificazione del lavoro specializzato.

Quando intere professioni, con le loro competenze, le loro comunità e il loro potere contrattuale, vengono fuse in un unico ruolo di “supervisore di AI”, il lavoro perde valore e potere. L’analogia con la Rivoluzione Industriale usata da Chen è calzante, ma non nel senso eroico che vorrebbe lui. Come allora si passò dall’artigiano specializzato all’operaio in fabbrica, oggi si rischia di passare dal professionista qualificato a un operatore di prompt, intercambiabile e con meno tutele.

La domanda non è se le squadre saranno organizzate diversamente, ma se esisteranno ancora delle professioni con una loro dignità e un loro potere contrattuale, o se verremo tutti ridotti a operatori freelance in un mercato globale del micro-lavoro, governato da piattaforme centralizzate.

La tecnologia non è un destino, è un campo di battaglia

Le domande di Andrew Chen non sono un’esplorazione neutra del futuro. Sono la dichiarazione d’intenti di un mondo, quello del capitale tecnologico, che vede nell’AI lo strumento definitivo per ottimizzare un sistema a proprio vantaggio: meno lavoratori, meno concorrenza, più monopoli e un controllo più granulare sul processo produttivo.

La visione “ottimistica” che lui stesso delinea – un mondo di piccole startup innovative e distribuite – è possibile, certo, ma non è l’esito naturale e inevitabile. Anzi, è il meno probabile se si lasciano agire indisturbate le attuali forze di mercato. Richiederebbe una volontà politica forte, una regolamentazione capace di smantellare i monopoli nascenti e la costruzione di un contropotere sociale ed economico.

La tecnologia non è mai un destino scritto. È un campo di battaglia. E le domande che si pongono oggi a Palo Alto sono le regole d’ingaggio per le lotte di domani. Starà a noi decidere se accettarle passivamente o se scriverne di nuove.