Insomma, ci risiamo. Ogni volta che una nuova tecnologia si affaccia sul mondo dell’informazione, la prima reazione è un misto di euforia e panico. Ora tocca all’intelligenza artificiale applicata ai motori di ricerca. Non parliamo più di una semplice lista di link blu, ma di macchine che “leggono” il web e ci danno una risposta preconfezionata. Bello, no? Forse. Ma la domanda che dovremmo farci è: a quali condizioni? E soprattutto, cosa succede quando per essere ascoltati, dobbiamo prima piacere a un algoritmo?
Un’analisi recente, molto interessante, ha messo il naso proprio in questa faccenda, cercando di capire cosa rende un contenuto “degno” di essere citato da una AI. E i risultati, ve lo anticipo, raccontano una storia che va ben oltre la semplice ottimizzazione SEO. Ci parlano del potere, del linguaggio e del rischio di un appiattimento culturale che dovremmo guardare con molta, molta attenzione.
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Il nuovo guardiano dell’informazione: l’AI come filtro della realtà
Prima di tutto, capiamoci. Quando parliamo di “AI search”, parliamo di sistemi come Perplexity o le risposte generate direttamente da Google e ChatGPT. Questi non si limitano a indicizzare le pagine, ma le interpretano per costruire una risposta discorsiva. Diventano, in pratica, i nuovi mediatori tra noi e la conoscenza disponibile online. E come ogni mediatore, non sono neutrali.
La sfida, quindi, non è solo avere un buon contenuto, ma avere un contenuto che sia strutturato e formulato in un modo che l’algoritmo possa facilmente “capire” e “digerire”. La ricerca ha analizzato centinaia di pagine citate da queste AI, concentrandosi su due elementi chiave che spesso trascuriamo: il titolo della pagina e lo “slug” dell’URL (la parte finale dell’indirizzo web, per intenderci).
L’obiettivo? Capire se esiste uno schema, una logica che possiamo decifrare. E la risposta è un sonoro sì.
L’intento è tutto: l’AI vuole sapere cosa cerchi (per sapere cosa darti)
Il punto di partenza di tutta l’analisi è una distinzione fondamentale che le macchine sembrano aver imparato molto bene: quella tra ricerche informative e ricerche commerciali.
- Le ricerche informative sono quelle in cui cerchiamo una conoscenza, una risposta a una domanda. Classici esempi: “cos’è il cloud computing” o “come si imposta un’automazione email”.
- Le ricerche commerciali, invece, sono quelle in cui stiamo valutando un acquisto, confrontando prodotti o servizi. Ad esempio: “miglior software CRM” o “strumenti di email marketing”.
Questa distinzione è cruciale, perché l’AI si aspetta un linguaggio e una struttura molto diversi a seconda dell’intento che percepisce dietro la nostra domanda. E premia i contenuti che si adeguano.
Le regole del gioco: precisione contro flessibilità
Per le domande informative, l’AI vuole la precisione di un chirurgo
Quando un utente fa una domanda per imparare qualcosa, l’algoritmo va a caccia di contenuti che siano quasi uno specchio della domanda stessa. L’analisi mostra che i titoli e gli URL delle pagine citate hanno una corrispondenza quasi letterale con la ricerca.
I dati parlano chiaro: in media, la “somiglianza semantica” (un punteggio che misura quanto il significato sia vicino) tra la ricerca e i titoli delle pagine citate è del 65%, e sale al 67% per gli URL. I contenuti che funzionano meglio usano frasi dirette e inequivocabili come “Cos’è…”, “Come fare per…”, “Guida a…”.
In pratica, per spiegare un concetto complesso, oggi rischi di dover titolare il tuo pezzo come se fosse una voce di un manuale tecnico. C’è poco spazio per la creatività, per la metafora, per un titolo che faccia riflettere. L’AI premia la prevedibilità. Se la tua pagina risponde in modo diretto e strutturato, hai quasi il doppio delle possibilità di essere citato.
Per le domande commerciali, l’AI concede un po’ più di elasticità (per ora)
Quando invece l’intento è commerciale, la faccenda cambia. Qui l’algoritmo diventa più flessibile. Non cerca la corrispondenza esatta, ma premia l’ampiezza semantica, la capacità di coprire un argomento usando sinonimi e termini correlati.
Per esempio, in questo tipo di ricerche, quasi il 90% delle pagine citate aveva meno del 30% di parole in comune con la query originale. E ben il 25% dei titoli usava un sinonimo al posto del termine esatto cercato dall’utente.
Perché questa differenza? Si possono fare delle ipotesi. Il linguaggio del commercio è per sua natura più variegato (“soluzioni”, “piattaforme”, “strumenti” possono essere interscambiabili). Oppure, più semplicemente, in questo campo c’è ancora margine per una logica meno rigida. Ma la tendenza, con l’aumentare della competizione, sarà probabilmente verso una maggiore precisione anche qui.
Cosa significa questo per chi scrive (e per chi legge)
A questo punto, la domanda sorge spontanea: quindi, che si fa? Se vogliamo che le nostre idee, le nostre analisi, le nostre inchieste – o anche solo i nostri prodotti – vengano visti, sembra che dobbiamo scendere a patti con questa nuova logica algoritmica.
Le indicazioni pratiche sono abbastanza chiare:
- Sii diretto e didascalico per i contenuti informativi. Usa le parole esatte che userebbe il tuo pubblico e struttura titoli e URL in modo che rispondano a una domanda precisa.
- Sfrutta sinonimi e ampiezza per i contenuti commerciali. Copri un argomento da più angolazioni linguistiche, perché una singola pagina può essere la risposta a molte ricerche simili.
- Mantieni i contenuti aggiornati. La freschezza delle informazioni è un segnale di qualità che sia gli utenti che gli algoritmi apprezzano.
Ma al di là della tecnica, è fondamentale una riflessione più profonda. Questo non è solo un manuale di istruzioni per “parlare come un robot”. È un campanello d’allarme. La pressione a standardizzare il linguaggio per compiacere una macchina rischia di appiattire il dibattito e di penalizzare l’originalità.
Il rischio, concreto, è quello di un web dove tutti scrivono allo stesso modo, con titoli prevedibili e strutture identiche, non perché sia il modo migliore per comunicare con un altro essere umano, ma perché è il modo migliore per essere “letti” da un algoritmo. E in questo processo di ottimizzazione, dove finisce il pensiero critico? Dove finisce la provocazione, l’analisi sfumata, la bellezza di un titolo che non spiega, ma evoca?
La sfida non è solo “ottimizzare i nostri contenuti per l’AI”. La vera sfida è capire come usare questi strumenti senza lasciare che siano loro a dettare le regole del nostro linguaggio e, in definitiva, del nostro pensiero.