Diciamocelo, a chi non è capitato di sentirsi affibbiare l’etichetta di “boomer”, “millennial” o “Gen Z” come se fosse un destino ineluttabile? Un’intera identità racchiusa in una parola, spesso usata come un’accusa o, nel migliore dei casi, come una pigra scorciatoia per capirci qualcosa. Ma da dove vengono queste categorie? E, soprattutto, a chi servono davvero? La risposta, come spesso accade, non ha nulla di romantico: sono strumenti del marketing, nati per semplificare la complessità umana e trasformarci in prevedibili profili di consumatori.
Il punto, però, è che questo sistema sta scricchiolando. E non perché le grandi aziende abbiano improvvisamente sviluppato un profondo rispetto per la nostra individualità. Al contrario: il sistema sta cambiando perché i loro strumenti per classificarci, analizzarci e, in definitiva, venderci qualcosa sono diventati infinitamente più sofisticati. Quello che sta accadendo nel mondo della pubblicità è uno sguardo privilegiato su come il potere sta cambiando le sue strategie di controllo.
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La nascita di un cliché: a cosa servono le generazioni?
Per anni, il mondo del marketing ha affettato la società in comode categorie generazionali. I boomer, leali al marchio; i Gen X, cinici e indipendenti; i millennial, idealisti e ossessionati dall’avocado; la Gen Z, nativa digitale e attivista. Ogni scatola con la sua bella lista di presunti tratti, utili a orientare le campagne pubblicitarie. Una semplificazione brutale, ma efficace. O almeno, lo è stata.
Il problema è che la cultura e le persone reali raramente seguono regole così nette. Come fa notare Nick Myers di OLIVER, basta pensare a Re Carlo e Ozzy Osbourne: nati a pochi mesi di distanza, entrambi “boomer”, eppure due universi culturali, comportamentali e di valori completamente diversi. L’etichetta generazionale, da sola, non ci dice nulla. Anzi, rischia di essere fuorviante.
Queste categorie, insomma, si sono rivelate per quello che sono: cliché pigri che appiattiscono le persone reali, ignorando tutto ciò che ci rende complessi e unici.
Perché le vecchie scatole non funzionano più?
Il crollo di questo modello non è casuale. È il risultato di cambiamenti tecnologici e sociali profondi che hanno reso le vecchie mappe inutili. I motivi principali sono essenzialmente due.
Il fattore algoritmo: i social sanno chi sei, non quanti anni hai
Mentre i pubblicitari erano ancora impegnati a disegnare i confini tra millennial e Gen Z, gli algoritmi dei social media avevano già cambiato le regole del gioco. Come spiega Maihri Gill di Born Social, siamo passati da un “social graph” (connesso ai tuoi amici) a un “interest graph” (connesso ai tuoi interessi). I nostri feed non ci mostrano più cosa piace alla nostra cerchia demografica, ma contenuti che intercettano le nostre passioni, le nostre ossessioni, le nostre nicchie.
In pratica, TikTok, Instagram o YouTube sanno già che sei un appassionato di K-pop, un fanatico del giardinaggio urbano e un divoratore di documentari storici. Sanno cosa ti muove, cosa ti indigna e cosa ti fa sorridere. Di fronte a questa mole di dati comportamentali, l’anno di nascita è un’informazione quasi primitiva, irrilevante.
La vita reale è più complicata (e la fase della vita conta più dell’età)
L’altro grande abbaglio è confondere l’età anagrafica con l’esperienza di vita. Dave Jones di True Digital lo spiega con un esempio perfetto: lui e suo fratello sono gemelli identici, 35 anni, stessa educazione. Ma lui ha due figli, il fratello no. Il risultato? Priorità e comportamenti di acquisto agli antipodi su generi alimentari, vacanze, finanze, casa. L’etichetta “millennial” non riesce a catturare questa differenza abissale.
È la fase della vita che determina le nostre scelte, non l’anno di nascita. Diventare genitori, iniziare un nuovo lavoro, andare in pensione: sono questi i momenti che trasformano i nostri bisogni e desideri. E sono questi i dati che, oggi, interessano davvero a chi vuole venderci qualcosa.
Le nuove gabbie: benvenuti nell’era delle micro-identità
Se le vecchie etichette non bastano più, cosa le sta sostituendo? Il marketing, ovviamente, non si è arreso. Ha solo affinato le armi. Le nuove parole d’ordine sono: fandom, identità, mentalità e microculture.
Sembra un passo avanti, vero? Meno stereotipi, più attenzione alle passioni che ci uniscono. Invece di essere un “millennial”, ora sei un membro della “Taylor Nation” (i fan di Taylor Swift), un “gamer” o parte di una specifica “comunità conversazionale” su Reddit. Si va a caccia di “tribù”, gruppi fluidi e in continua evoluzione uniti da passioni comuni.
Ma non illudiamoci. Questo non è un trionfo dell’individualismo, ma di un sistema di profilazione e sorveglianza molto più efficiente. Come sottolinea Jose Aniceto di MullenLowe US, l’obiettivo è capire le “motivazioni implicite” che ci spingono ad agire. Le gabbie sono diventate semplicemente più piccole, più personalizzate, quasi invisibili. Ma forse, proprio per questo, sono ancora più difficili da scardinare.
Essere ridotti non più a una generazione, ma a una somma di “affinità di lifestyle”, “modelli di engagement” e “dati attitudinali” è davvero una liberazione? O è la forma definitiva di mercificazione dell’identità, dove ogni nostra passione, ogni nostra scelta, ogni nostra appartenenza viene tradotta in un’opportunità di vendita?
Oltre l’etichetta: difendere un’identità non in vendita
La fine del marketing generazionale non è una vittoria per noi, ma una vittoria per un sistema che ha imparato a leggerci con una precisione chirurgica. I cliché grossolani lasciano il posto a una micro-segmentazione che ci fa sentire “visti” e “capiti”, ma il cui unico scopo resta quello di alimentare il ciclo del consumo.
La vera domanda, quindi, non è “OK Boomer, cosa c’è dopo?”. La vera domanda, per noi, dovrebbe essere: in un mondo che ci seziona in “fandom” e “microculture” per prevedere i nostri comportamenti, come possiamo difendere uno spazio per un’identità che sia autentica, contraddittoria, e soprattutto non interamente definita dal mercato?
Forse, il primo passo è proprio questo: riconoscere le etichette per quello che sono, vecchie o nuove che siano, e ricordarci che siamo sempre molto, molto di più della somma dei nostri acquisti.