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Diciamocelo, i numeri che girano attorno a OpenAI fanno venire le vertigini. Il CEO Sam Altman si è impegnato a spendere oltre mille miliardi di dollari per costruire l’infrastruttura AI, coinvolgendo colossi come Nvidia, AMD e Oracle. Cifre astronomiche. Ma c’è un altro numero, molto più piccolo, che se fossi un investitore mi farebbe sudare freddo: degli 800 milioni di utenti di ChatGPT, solo il 5% circa paga un abbonamento.
La matematica, insomma, non torna. E mentre l’intera economia sembra scommettere sul successo di questa bolla, la base del modello di business di OpenAI scricchiola rumorosamente.
Un castello di carte da mille miliardi
I costi per far girare questi complessi modelli di intelligenza artificiale sono esorbitanti. E le perdite di OpenAI lo dimostrano: come riporta il Financial Times, l’azienda ha perso la bellezza di 8 miliardi di dollari solo nella prima metà di quest’anno, nonostante i ricavi siano raddoppiati rispetto all’anno precedente.
È un’emorragia di denaro che solleva dubbi sulla sostenibilità a lungo termine. Gli stessi dirigenti di OpenAI sembrano navigare a vista. Un manager senior ha ammesso al FT che, sebbene gli investitori si aspettino un piano quinquennale, “in questo momento direi che c’è molta nebbia all’orizzonte”.
Il 95% non paga: utenti o prodotto?
Il dato più impressionante, e al tempo stesso preoccupante, è la discrepanza tra la popolarità e la monetizzazione. OpenAI vanta 800 milioni di utenti per ChatGPT, che è di gran lunga il chatbot AI più popolare. Eppure, non riesce a convincere il restante 95% a sborsare 20 dollari al mese per un servizio che usano regolarmente.
Questo ci porta alla solita, critica domanda: se il 95% degli utenti non paga, sono davvero “clienti”? O sono, più realisticamente, il “prodotto”?
Stiamo assistendo a uno sfruttamento di massa, dove milioni di persone addestrano gratuitamente i modelli AI (fornendo dati, feedback e correzioni), quegli stessi modelli che un domani potrebbero automatizzare e sostituire le loro competenze, concentrando ulteriormente la ricchezza verso chi possiede l’infrastruttura.
La disperata caccia alla monetizzazione (anche a luci rosse)
Con i costi che esplodono e i ricavi dagli abbonamenti che non bastano, OpenAI sta cercando disperatamente nuove fonti di guadagno. Si guarda alla pubblicità online, alla monetizzazione del nuovo generatore video Sora (che, tra l’altro, è un altro pozzo senza fondo di risorse) e persino allo shopping online.
In un apparente tentativo di aumentare il retention rate, Altman ha recentemente fatto marcia indietro su una promessa precedente, annunciando che l’azienda permetterà “app mature”, nonostante solo due mesi prima si vantasse del fatto che ChatGPT non ospitasse “sexbot”. Un segno, forse, che la necessità di fare cassa supera le remore etiche.
La bolla che minaccia l’economia reale
Il vero problema è che questa scommessa azzardata non riguarda solo OpenAI. Come ha riportato il Wall Street Journal, le spese in conto capitale per l’IA hanno contribuito alla crescita dell’economia statunitense più di tutta la spesa al consumo messa insieme. Stiamo parlando di una bolla speculativa di proporzioni gigantesche.
Inoltre, gli analisti hanno sollevato più di un sopracciglio di fronte agli accordi “circolari”: Nvidia (che produce i chip) investe in OpenAI, che poi usa quegli stessi soldi per comprare hardware da Nvidia. È un meccanismo che gonfia artificialmente le valutazioni e puzza di bruciato lontano un miglio.
Se questa bolla dovesse scoppiare, il rischio è che si porti dietro l’intera economia reale.
Altman: “La redditività? Non è una priorità”
E cosa dice Sam Altman di tutto questo? Sembra tutto tranne che preoccupato. Parlando con i giornalisti all’inizio del mese, ha liquidato la questione della sostenibilità economica.
Ha dichiarato che raggiungere il pareggio di bilancio “non è tra le mie prime dieci preoccupazioni, ma ovviamente un giorno dovremo essere molto redditizi”.
“Un giorno”. Una tranquillità quasi sfacciata, considerando le cifre in ballo. Ma è la logica della Silicon Valley: prima crea il monopolio, poi pensa a come guadagnarci. Il problema è che, se il castello di carte crolla prima, a pagare il conto saremo tutti noi.